Il testo che viene presentato oggi all’attenzione della stampa e che, tramite i colleghi, viene reso noto pubblicamente, è il frutto di un lungo lavoro di riflessione che prende le mosse dall’analisi critica di uno studio (che si trova in appendice) effettuato da una società specializzata, il quale aveva sollevato non poche perplessità per le conclusioni a cui era giunto. La riflessione, ovviamente, è stata condotta in primo luogo da Flavio Pasotti, che del testo sottoposto alla vostra attenzione è il protagonista, ma ha coinvolto, in oltre due anni di lavoro, il gruppo dirigente di Apindustria e lo staff, a cominciare dal segretario Francesco Gobbi, che ne ha seguito passo passo l’evolversi.Non si può, ovviamente, dire che Brescia district, global country sia da attribuire ad Apindustria e al suo gruppo dirigente, poiché la responsabilità dei testi è solamente di Flavio Pasotti e del sottoscritto, che lo ha intervistato. Tuttavia va sottolineato come il percorso che ci porta a questo lavoro sia stato, sin dall’inizio, frutto di una strategia che ha avuto, anche nei simboli, il valore di un messaggio teso a suscitare attenzione alla dinamica delle forze reali in movimento nella società bresciana e, nel contempo, a richiamare la classe dirigente alla consapevolezza e ad una nuova coesione. Quello che a prima vista potrebbe sembrare un ossimoro, il distretto accostato alla globalità, è, al contrario, oggi, l’unico modo per affrontare con il necessario vigore il prossimo futuro. Non mi soffermo su questa questione, che è il filo conduttore del libro, perché ne parlerà, io credo, Flavio Pasotti. Mi preme soltanto sottolineare che in Europa si è avviato, anche dal punto di vista normativo, un interessante itinerario sui distretti, altrimenti denominati cluster; che sono già in essere alcune significative esperienze (Francia, Spagna) e che l’Italia, con la Finanziaria, ha finalmente accolto le indicazioni comunitarie. Questo per dire che, anche se Brescia district non può essere ridotto ad un cluster, comunque ben si inserisce in un processo generale di valorizzazione dei distretti, dei metadistretti, delle filiere e delle eccellenze produttive.L’idea di Brescia district è stata resa pubblica durate varie iniziative di Apindustria e in una di queste, davanti ad un parterre di prim’ordine, Flavio Pasotti ha chiesto di liberare Prometeo. Cosa intendeva dire? Non certamente, come da qualche parte si è inteso, banalizzando il concetto, di liberare le imprese dai lacci e dai laccioli, secondo un vecchio e ormai desueto ritornello. No. Liberare Prometeo, vuol dire ben altro. Nella mitologia, se Ermete rappresenta la Sophia (la sapienza), Prometeo simboleggia la techne, parola il cui spettro semantico, è molto più ampio di quello della traduzione italiana in arte. Techne comprende sia la nostra arte, sia la nostra tecnica, sia la capacità, manuale e no, di fare qualcosa che si svolge secondo una regola. Non è dunque una mera esecuzione di progetti di altri, che l’esecutore può non condividere o addirittura non comprendere, né una creatività libera da regole. Gli artisti sono anche tecnici e i tecnici sono anche artisti, perché il loro fare, in entrambi i casi, comporta un saper fare o un metodo; comporta, cioè, una conoscenza, pratica e teorica a un tempo e una partecipazione consapevole a ciò che si fa. Ma non è qui il vero significato del mito. “Prometeo - come spiega Umberto Galimberti - era figlio di Gea e dalla madre Terra aveva avuto il dono di “conoscere in anticipo” (pro-metheùs)”. (U.Galimberti, Gli equivoci dell’anima, Feltrinelli).La conoscenza che Prometeo donò agli uomini fu, dunque, ben altra dalla techne. Egli donò loro la consapevolezza. Nel “Prometeo incatenato” di Eschilo, Prometeo predice: “So che Zeus violento, un giorno, mite d’animo, placata la sua ira inflessibile, verrà da me impaziente, a stringere un accordo e un’amicizia”. In altra traduzione dello stesso passo leggiamo: “ Bene so ch’egli è acerbo, ed in pugno tien giustizia. Ma pure, mi credo, diverrà l’umor suo ben piú mite, quando queste sventure lo fiacchino; e appianata la furia implacabile, dovrà chiedermi un giorno amicizia e concordia; né io m’opporrò”. In quello slogan: “Liberiamo Prometeo” c’è il riconoscimento di un’arte (oggi diremmo il know how) dei bresciani, l’invito alla consapevolezza e alla tensione verso il futuro che si sostanzia di quel “conoscere in anticipo” che è proprio della progettualità e, infine, la necessità di stringere un accordo, un’amicizia, un nuovo patto per lo sviluppo. E’ di questi concetti che parla il libro che viene oggi reso pubblico. Vorrei concludere questa breve introduzione con un cenno storico. All’inizio del Novecento i primi aeroplani italiani solcarono i cieli di Brescia. Siamo in una stagione di grande sviluppo e di grande capacità delle classi dirigenti di dare risposte coerenti con lo sviluppo. Nel libro se ne fa largo cenno. A quei tempi Brescia non era sotto la luce dei riflettori per disastri bancari o esecrabili avventure finanziarie, ma per la sua capacità di essere punta avanzata del nuovo, che nell’aeronautica e nella motoristica, della quale la 1000 Miglia diventerà qualche anno dopo un simbolo mondiale, aveva le sue principali eccellenze. E proprio per questo Brescia si era meritata un eccellente cronista: Franz Kafka, che da Brescia, a proposito del “Circuito aereo” di Montichiari, nel 1909, scrisse il suo primo articolo sul “”Deutsche Zeitung Bohemia”. Un articolo, dal titolo “Die Aeroplane in Brescia” che vale davvero la pena di leggere. “La sentinella bresciana” del 9 settembre 1909 annuncia con entusiasmo: Abbiamo a Brescia una folla come non si è mai vista, come nemmeno al tempo delle grandi corse delle automobili, i forestieri (…) si accalcano nelle nostre piazze, nei nostri alberghi, in tutti gli angoli delle case private; i prezzi salgono notevolmente, i mezzi di trasporto non sono sufficienti per portare la moltitudine fino al “circuito aereo” (…). L’aerodromo è a Montechiari che si può raggiungere in mezz’oretta con la ferrovia locale di Mantova (…). Ogni tanto senti che la speranza di arrivare al circuito con questo misero treno ti abbandona del tutto. (…). Ora siamo arrivati. Davanti all’aerodromo si stende un largo spiazzo con baracche sospette sulle quali avremmo previsto insegne diverse da quelle che leggiamo: Garage, Grand Buffet lnternational (…). Passiamo davanti ai capannoni che con le tende tirate sembrano chiusi palcoscenici di commedianti girovaghi. Sui frontoni stanno i nomi degli aviatori cui appartengono gli apparecchi nell’interno e, sopra i nomi, la bandiera del rispettivo paese. Leggiamo i nomi di Cobianchi, Cagno, Rougiet, Curtiss, Moucher (un trentino che batte bandiera italiana), Anzani, Circolo degli aviatori romani. “E Blériot?” domandiamo, Blériot al quale abbiamo pensato tutto questo tempo, dov’è Blériot? Nello spiazzo cintato davanti al suo capannone Rougiet; un omino dal naso appariscente, corre su e giù in maniche di camicia. È tutto affannato, non si capisce bene perché, agita le braccia con le dita in movimento, si tasta dappertutto camminando, manda i suoi operai dentro il capannone, li richiama, entra lui respingendo gli altri, mentre in disparte sua moglie in abito bianco e stretto, un cappellino nero premuto sui capelli, le gambe leggermente divaricate nella breve gonna, guarda nel vuoto. (. . .) Davanti al capannone attiguo c’è Curtiss seduto e isolato. Da uno spiraglio fra le tende si vede il suo apparecchio che è più grande di quanto si dice. Mentre passiamo di lì Curtiss tiene fra le mani il “New York Herald” e legge la prima riga di una pagina; ripassiamo dopo mezz’ora e vediamo che legge a metà della pagina; dopo un’altra mezz’ora ha finito quella pagina e ne incomincia una nuova. Si vede che oggi non ha voglia di volare (…) Da una parte del parapetto di legno c’è un gruppo di persone. “Com’è piccolo!” esclamano alcuni francesi quasi sospirando. Che cosa c’è? Ci spingiamo avanti ed ecco nel campo, vicinissimo e colorato di giallo, un piccolo aeroplano che si prepara a volare. Ora vediamo anche il capannone di Blériot e, accanto, quello del suo allievo Leblanc, costruiti nel campo stesso. Appoggiato a una delle ali dell’apparecchio e subito riconosciuto sta Blériot che, la testa salda sul collo, osserva i suoi meccanici affaccendati intorno al motore. Con quest’inerzia pretende di alzarsi nell’aria? (…) Ed ecco, Blériot è accomodato sul sedile e tiene la mano su una leva, ma ancora lascia fare ai meccanici come fossero ragazzi zelanti. Gira gli occhi lentamente verso di noi, li volge poi altrove, ma è sempre padrone del proprio sguardo (…) Un operaio afferra una pala dell’elica per metterla in moto, le dà uno strattone, si ode come il respiro di un uomo robusto nel sonno, ma l’elica non si muove più. Si prova un ‘altra volta, dieci volte, l’elica ora si ferma subito, ora concede un paio di giri. Dipende dal motore. Altri lavori ricominciano, gli spettatori si stancano più degli interessati. Il motore viene oliato da tutte le parti; viti nascoste vengono allentate o strette, un uomo entra di corsa nel capannone, ne ritorna con un pezzo di ricambio che però non va bene; torna indietro e, seduto per terra, lo tiene fra le gambe e lo lavora a martellate. Blériot cede il posto a un meccanico, il meccanico a Leblanc. Ora uno, ora l’altro danno strappi all’elica, ma il motore è spietato come uno scolaro che tutti aiutano, tutta la classe gli suggerisce, ma no, egli non sa, s’impunta continuamente, rimane continuamente incagliato allo stesso punto e non ce la fa. Per un po’ Blériot se ne sta quieto sul sedile, i sei collaboratori gli stanno intorno senza muoversi, sembra che tutti sognino (…) Di nuovo si dà una spinta all’elica, meglio forse di prima, forse anche no; il motore si mette in moto con fracasso, quasi fosse un altro; quattro uomini trattengono l’apparecchio e nella bonaccia tutt’intorno la corrente suscitata dall’elica attraversa a ventate i camiciotti da lavoro di questi uomini. Non si ode una parola, chi comanda è il rumore dell’elica, otto mani lasciano andare l’apparecchio che scorre a lungo sulle zolle come una persona maldestra su un pavimento cerato (…) Finora fu mostrato soltanto l’apparecchio di Leblanc. Ora viene invece quello col quale Blériot ha volato sopra la Manica; nessuno lo ha detto, tutti lo sanno. Una lunga pausa e Blériot è nell’aria. Si vede il suo busto eretto sopra le ali, le gambe affondate nella macchina ne sono quasi parte. Il sole è sceso verso l’orizzonte e passando sotto il baldacchino delle tribune illumina le ali librate. Tutti guardano in alto con ammirazione, in nessun cuore c’è posto per altri. Egli fa un giro e si presenta quasi a perpendicolo sopra di noi. E tutti torcendo il collo vedono come il monoplano ondeggia, come è afferrato da Blériot e fatto persino salire. Che succede? Quassù, venti metri sopra il suolo, un uomo è imprigionato in una gabbia di legno e si difende da un pericolo invisibile volontariamente assunto (. ..) Tutto si svolge felicemente. L’antenna dei segnali indica che il vento è migliorato e Curtiss volerà per conquistare il Gran Premio di Brescia. Ci siamo dunque. Si fa appena in tempo a scambiarsi la notizia che il motore di Curtiss incomincia a rombare, si fa appena in tempo a guardare da quella parte ed egli già si allontana a volo sopra la pianura che si allarga davanti a lui, verso i boschi lontani che appaiono soltanto ora. Il suo volo sosta a lungo sopra quei boschi, egli scompare, noi vediamo i boschi e non lui. Dietro a certe case, Dio sa dove, sbuca alla stesa altezza di prima e viene velocemente verso di noi; quando sale vediamo inclinarsi le superfici inferiori del biplano, quando si abbassa le superfici superiori brillano al sole. Egli gira intorno all’antenna indifferente al vocio dei saluti, fila diritto verso il punto donde è venuto e ridiventa piccolo e solitario. Eseguisce cinque di tali giri e percorrendo cinquanta chilometri in quarantanove minuti e ventiquattro secondi si aggiudica il Gran Premio di Brescia, trentamila lire (…). (Da Aeroplani a Brescia, di Franz Kafka, edizioni Biblioteca del Vascello, 1991) Come vorremmo che Brescia fosse oggetto di quell’attenzione della quale fu oggetto agli inizi del secolo. Non quartierini, furbizie, giochi finanziari funambolici e disastrosi, ma visione prometeica. Ecco qual che ci vuole per essere di nuovo degni di un Franz Kafka, per tornare a volare. Oltre un secolo fa, nel settembre 1899, Brescia organizzava la sua prima “grande corsa su strada”, un circuito comprendente le città di Cremona, Mantova e Varese con un percorso complessivo di 233 chilometri. Nel 1921, il primo “Gran Premio Automobilistico d’Italia”, venne disputato sul circuito della Fascia d’Oro, nella piana di Montichiari poco a sud della città. Venne infine, nel 1927, la Mille Miglia. Un caso che i bresciani siano così intimamente legati alla storia delle motoristica mondiale della velocità?Parrebbe di no. Brescia, come è noto, è stata fondata dalla popolazione celtica dei Cenomani, la quale, muovendo dalla regione francese attorno all’odierna Le Mans, giunse nell’Italia del Nord verso la fine del V secolo a.C., stanziandosi nei pressi del lago di Garda, tra i fiumi Oglio, Po e Adige. Se Brescia cenomana è sede di una delle più famose corse automobilistiche del mondo, Le Mans, il cui nome celtico è Suindunum (Vindunum) patria d’origine dei Galli che fondarono Brixia, non è da meno. Le Mans, infatti, città della Francia settentrionale, 145 mila abitanti, capoluogo del dipartimento che prende il nome dal fiume Sarthe, è un importante nodo ferroviario, con industrie che producono autoveicoli, macchine agricole, materiale rotabile, derivati chimici, tessuti e generi alimentari. La città è sede di un’università e ha tante altre interessanti virtù, ma la sua fama è legata principalmente al suo circuito automobilistico, dove annualmente si corre la gara detta “la 24 ore di Le Mans”. Brescia e Le Mans, Brixia e Suindunum, dunque, legate da una passione comune: l’automobilismo. Strana storia. Strana coincidenza. Una storia e una coincidenza che ci servono per dire che nell’inconscio collettivo dei popoli si annidano potenzialità, vocazioni, abilità che vengono da lontano. Sono le nostre radici, che non vanno perse, anzi, vanno mantenute vive nella consapevolezza, perché come diceva il profeta, per vedere in avanti, bisogna guardare indietro. Prometeo, per “conoscere in anticipo”, così come indicava il suo stesso nome, aveva dovuto acquisire la sapienza degli dèi. Il libro che viene oggi presentato ha proprio questo significato: di recupero dell’inconscio collettivo, delle qualità che ci vengono dal nostro passato, per ri-conoscere un’identità da proiettare nel futuro, liberando la prometeica capacità di conoscere in anticipo, ossia di progettare, di andare oltre. Silvano Danesi