Nella Àl dé Póss, che sale dal Serio verso il monte Erbia, dove ora sorge una santella dedicata alla Madonna, la tradizione vuole che dimorasse il basilisco, i cui occhi sarebbero scavati nella pietra che sovrasta la cappelletta. Il basilisco, “piccolo re”, presente nelle tradizioni di molti luoghi dell’arco alpino, è una chimera che nasce da un uovo di serpente covato da un gallo; ha coda di serpente, testa d’ariete e corna di mucca ed è il risultato simbolicamente sincretico dell’antico culto del serpente, ovvero della Dèa Madre, ereditato, inglobato e strasformato (covato) dai Celti indoeuropei, portatori di culti solari. La simbologia è netta e non lascia spazio ad equivoci: il serpente è associato alla Dèa Madre, mentre il gallo è simbolo solare, in quanto annuncia il sorgere dell’astro al mattino. Il basilisco è, dunque, simbolicamente, la sintesi di due culture: quella del Neolitico, matrilineare e connotata dalla Dèa, spesso rappresentata come serpentiforme e quella indoeuropea, patrilineare e solare. Del basilisco troviamo numerose testimonianze nel folklore. G.P. Salvini (Giornale di Brescia) descrive il misterioso animale come “corto e tozzo come un salame, con o senza zampe” e ricorda come il suo sguardo incanti e il suo alito velenoso “strini”[bruci] l’erba: “tutto l’aspetto fa raggrinzire la pelle, riduce i capelli irti come il riccio di un castagno”. Le denominazioni del basilisco sono fra le più diverse: basilisc (a Casnigo in Valle Seriana), badilisc (a Cevo, in Valle Camonica), besalisch (in val Bodengo),bés fuì, bés galilì (in Franciacorta e a Nuvolera, nel sito megalitico denominato El sércol), Carbon (in Carnia), Talzelwurm o Stollwurm (in Austria e in Svizzera) e, in termini scientifici, “Eloderma europaeum”, parente dell’Eloderma sospectum, un lucertolone velenoso dei deserti americani, altrimenti chiamato Gila. Un nome, quello scientifico, che fu attribuito al basilisco da uno zoologo austriaco, dopo che i giornali degli anni Trenta ne avevano parlato, descrivendolo come lungo dai 50 ai 90 centimetri, con una coda corta e brevi zampe, tozzo, dal carattere aggressivo e dallo sguardo malevolo.Dell’animale si dovette interessare, ricorda il Salvini, anche il Ministero dell’Agricoltura austriaco e nel testo di Willi Ley: “Leggende e storie di animali”, edito da Bompiani nel 1951, (la citazione è del Salvini), vengono riportate le testimonianze di chi il basilisco lo avrebbe visto e fotografato per davvero. Del basilisco si parla anche nel terzo numero di “Brescia rivista”, il mensile diretto da Carlo Agarotti per i tipi dell’editrice Rothari di Leno. In questo caso al serpente si associa la Bissaboga (strada curvata) e il Besolà (da cui ‘mbesolat, attorciliato) o Bossolà, un dolce tipico della pasticceria bresciana.Se il serpente-drago ha la testa d’ariete con le corna di mucca, ciò potrebbe ragionevolmente significare che il mito che lo riguarda sia nato per indicare che il tempo a cui si riferisce è quello nel quale la Testa del Drago (equinozio di primavera) era simile all’Ariete (Era dell’Ariete) quando questo aveva ancora le corna di mucca o del toro (Era del Toro). Siamo quindi in un periodo vicino al passaggio dall’Era del Toro a quella dell’Ariete. L’epoca in questione è 2220 a.C. (Toro dal 4.380 a.C. al 2.220 a.C. e Ariete dal 2.220 a.C. al 60 a.C.). Il serpente con testa di capra o di mucca trova un riferimento anche nel Kernunnos, (il Dio Cornuto o Dio Cervo), come del resto dimostra anche un graffito in località Naquane (Valle Camonica), che raffigura il dio Cernunno con accanto un serpente e con un torquis appeso al braccio destro. Il graffito è attribuito da EmmanuelAnati ad un periodo che va dal 1100 al 16 avanti Cristo (ultimo periodo di produzione dei graffiti camuni).Il Cernunnos camuno è il celtico Lug, il luminoso, il quale, nella Caldaia di Gundestrup viene raffigurato con le corna di cervo, un torquis nella mano destra e un serpente con testa d’ariete nella mano sinistra.Il simbolo del serpente è universale, in riferimento all’energia creatrice, all’eterno ciclo della trasformazione (vita-morte) ed alla conoscenza. Non è questa la sede per affrontare compiutamente la complessa simbologia del serpente, della quale è, tuttavia, necessario affrontare l’aspetto che lo associa alle forze ctonie, alla Terra, alle cavità, a tutto ciò che è sotterraneo, perché questo aspetto ci conduce all’aspetto serpentiforme della Dèa, come possiamo riscontrare nella basca Mari, nella cinese Nu Kua, nella Kunapipi dell’Oceania, nell’africana Muso Koroni o, ancora, nella Melusina (Mére Lusine, ovvero Lugine, Lusine, la paredra di Lug) Il basilisco è il re dei serpenti, il serpente coronato e nel “Neolitico – fa notare Marija Gimbutas - le raffigurazioni della dea-serpente portavano spesso un copricapo, come una specie di corona. Questa caratteristica rivive nel folklore baltico e in altre zone del nord Europa, attraverso la credenza che alcuni serpenti compaiano coronati; queste corone sono simboli di speranza e di ricchezza. Le narrazioni popolari dicono che chi lotta con un gigantesco serpente bianco otterrà una corona. La corona rende onniscienti, rende capaci di vedere tesori nascosti e di comprendere il linguaggio degli animali. Il serpente coronato è la regina: alcune favole raccolte trecento anni fa narrano di centinaia di serpenti al seguito di un serpente coronato. Queste reminiscenze della sacralità dei serpenti rievocano chiaramente – ci ricorda Marija Gimbutas - la dea serpente del Neolitico”. [i] Il tema del serpente è strettamente connesso con quello del wouivre, che nella tradizione druidica è lo spirito tellurico, il quale, come un serpente, striscia lungo la terra e agisce in profondità, portando la vita e la fertilità. Ci sono luoghi in cui questo flusso nascosto raggiunge la superficie generando un collegamento tra il cielo e la terra. “Questa particolare forza o spirito tellurico si manifesta in determinate circostanze soprattutto in presenza di corsi d’acqua sotterranei, dai quali si sprigiona una forza magnetica, o nei punti della crosta terrestre in cui, per la presenza di faglie e di fratture, diversi tipi di roccia si mescolano fra loro, oppure ancora, stando agli antichi, in luoghi dove gli dèi avevano dato segno della loro immanenza. ….. Questi, in genere, i luoghi dove le forze telluriche più potenti – manifestazione palpabile dello spiritus mundi o spirito della terra – può essere avvertito, sentito. Lo spiritus mundi racchiude in sé un’energia così prepotente da essere capace di ridestare l’uomo alla vita dello spirito. Questa situazione speciale era già riconosciuta ampiamente dai sacerdoti druidi …“.[ii] Quelli dove si manifesta il wouivre sono punti che provocano “in un essere umano la capacità di avvertire un’espansione eterica, ossia un autentico “stato di grazia”, un’energia poderosa …”. [iii]Il wouivre nasce dal movimento delle acque sotterranee e delle faglie del terreno che hanno messo in contatto dei suoli di natura diversa, o sorgono dalle profondità del magma terrestre (come il basco Sugaar, il serpente di fuoco – radice *su, paredro della Dèa Mari). A volte le wouivre sono delle forze che attraversano il cielo, delle correnti magnetiche che in certe situazioni ben precise vanno a incontrare in un modo particolarmente benefico l’azione delle correnti telluriche e creano un luogo privilegiato, che i druidi segnavano con un menhir o con un dolmen. Il o la wouivre nella tradizione diventa la vouivre (vipera), creatura fantastica, un genere di drago alato, il cui formato, secondo le varie tradizioni, è mutevole: da alcuni centimetri, alla lunghezza di parecchi metri. Fornito raramente di piedini, ha sempre due grandi ali. Ma la cosa che lo caratterizza particolarmente è che trasporta sulla faccia, o in una cavità del cranio, o alla conclusione di una sorta di antenna, una pietra di inestimabile valore, generalmente un rubino, chiamato “escarboucle”, a volte un diamante. La pietra è di una luce vivida e quando il vouivre vola alla notte, lascia una traccia di fuoco. L’escarboucle a volte è nascosto nelle canne dell’ansa di un fiume o di un lago mentre il vouivre pesca e può essere rubato da un ladro particolarmente audace. Per il resto del suo tempo il vouivre veglia sui tesori sotterranei.A Zogno, in Val Brembana, nel museo, creato da don Giulio Gabanelli, è conservata una raffigurazione lignea del serpente con una boccia d’oro in bocca perfettamente corrispondente tradizione del vouivre. Il vouivre passa la più gran parte del tempo sotto terra. Il suo riparo può essere un foro che apre lui stesso nella la terra, una caverna a lato di una scogliera, o il sotterraneo di un castello in rovine. Ma frequenta anche agli ambienti acquatici: il fiume calmo che brilla sotto il fogliame, lo stagno pacifico nel mezzo di un bosco, la fonte che scorre sotto l’erba o che si riversa in un bacino della pietra; apprezza i posti poco abitati come le paludi, le caverne. A volte è in una fontana nel cuore di un villaggio. È là che berrà o si bagnerà. Il vouivre non è un animale vagabondo; ha le sue abitudini e i suoi spostamenti sono limitati. A volte vola da una rovina ad un’altra, si avviluppa su un campanile o vola sul pelo dell’acqua. Le sue uscite sono regolari ed esce tutte le sere ad ore fisse. In Francia, a Avoudrey, esce solamente una volta all’anno, a Natale. A Mouthier è ancora più preciso: esce elle 11 di sera. Se non lo si provoca il vouivre non è un animale pericoloso. Obbediente agli impulsi della natura, rimane indifferente al mondo degli uomini, ma se si tenta di rubargli il suo diamante diventa immediatamente furiosa e attacca chi la vuole depredare. E’ quanto accadeva a Zogno, in Val Brembana, secondo la leggenda del serpente (drago) della Corna Rossa, che i vecchi dicono di vedere ancora volare tra le cime. Il serpente usciva di notte dalla sua tana sulla Corna Rossa dopo essersi fermato a bere all’antica fonte del Boér, presso Inzogno. Si dice che i giovani del paese seguissero il serpente alla fonte, con una padella per catturarlo e rubargli la boccia d’oro, ma accadeva sempre che i giovani venissero all’istante pietrificati. Il vouivre è presente anche a Cevo (Valle Camonica), nella forma di serpente della “preda” (della pietra), visibile, secondo la tradizione, tra i boschi nella zona della Pineta. Dalla tradizione si evince che nei pressi della sorgente Antigola, una delle più antiche del luogo, dove l’acqua sgorga sempre alla stessa temperatura, girasse un serpente con un diamante (una pietra luminosa) in bocca, chiamato dalla popolazione Sèrpent dè la préda. Va a questo proposito ricordato che tra le popolazioni delle alpi francesi e svizzere si narra di serpenti e di draghi volanti con una pietra in fronte, che di notte volano tra le cime dei monti e di giorno si riparano in grotte naturali. Secondo tradizioni celtiche ai serpenti volanti crescevano le ali con l’invecchiamento e si trasformavano in draghi. Alcuni draghi alati avevano corpo leonino. Sempre riguardo a Cevo, D.A.Morandini scrive: “Una antica tradizione dice che vi esistessero, sotto la Cappella dell’Androla, delle cave di rame, chiamate ramine. La Cappella dell’Androla è forse il miglior belvedere di tutta la Valle Camonica. Esaurite ed abbandonate le cave di rame rimasero le gallerie profonde e paurose. Ebbene: quel popolo che immaginò un serpente dall’anello d’oro, a cui nessuno osò mai avvicinarsi perché annientava collo sguardo, popolò anche quelle gallerie di streghe. Queste fantastiche creature paurose, durante l’infuriare dei temporali, uscivano dai loro domini sotterranei e ballavano sotto le intemperie, sui prati dell’Androla le più strane ridde infernali”.[iv]Ora, va notato che nella lingua dei Baschi, che ripopolarono l’Europa dopo l’ultima glaciazione e che si spinsero anche sulle Alpi, “andre” significa donna, signora: un titolo che spettava a Mari, per cui Androla potrebbe ragionevolmente essere un luogo legato ad Andre, alla Signora. Mari, “la Signora”, “la Dama”, Andre, dèa che vive nelle regioni abissali, ha forme diverse: nelle regioni sotterranee ha aspetto serpentiforme; in superficie appare come una donna bellissima, elegantemente vestita, in atto di pettinarsi con un pettine d’oro.[v] Vestita con eleganza (a Lercuns ha una gonna rossa), Mari ha lacune volte nelle mani un palazzo d’oro.[vi]Nella sua casa a Aketegui ci sono letti d’oro, a Otsabio c’è una statua di un toto d’oro, a Airobi beltz si siede su una poltrona d’oro, a Otsibarra c’è un pettine d’oro che le apparteneva. Una manciata di carbone può trasformarsi in oro all’uscita della sua grotta. Mari ha i piedi d’uccello o di capra (a volte). Può essere pianta, roveto ardente, caprone, corvo, cavallo o giovenca, avvoltoio, raffica di vento, nuvola, arcobaleno, globo di fuoco, donna la cui testa ha come aureola la luna piena, falce infuocata che attraversa il firmamento. [vii] Mari, dunque, è cielo, terra, luna e ha le caratteristiche (piedi d’uccello, corpo di serpente) della Dèa Madre del Neolitico.La grotta, il serpente dall’anello d’oro, il toponimo Androla sono dunque elementi che ci riconducono a Mari, alla Dèa Madre dei Baschi e al suo paredro Sugaar o Soughe. I Baschi, scrive Augustin Chaho, nella sua ricostruzione mitologica, “vedono nel fuoco centrale del globo il principio creativo e l’agente rinnovatore della terra: gli hanno dato il nome di Soughe, Serpente di Fuoco e Leheren (Lehen heren), Primo-Ultimo. Questo mito, emblema della lotta della natura, è lo stesso Leherenus, il Dio della guerra degli antichi Novempopulaninens”.[viii] I veggenti euskariens, secondo Chaho, avevano scoperto i cicli delle eruzioni e il Grande Serpente è colui che solleva le montagne e getta la struttura interiore, la materia fusa, alla superficie. “Leheren-Soughe dormiva, girava su se stesso, nel lago interno, lo stagno di fuoco, la sua respirazione profonda faceva muggire gli echi dell’inferno; l’uovo-mondo che gli serve da inviluppo sembrava pronto a rompersi ai movimenti convulsivi che agitavano il mostro durante la sua letargia. Infine l’angelo di Iao lasciò cadere nell’oceano la sessantesima goccia d’acqua dalla sua clessidra che segna il tempo, proclamò la fine e la consumazione dei secoli e suonò le sette trombe di bronzo. A questo segnale Leheren, il Grande Artefice di Dio si svegliò e sorgendo dalle sue caverne, aprì le sette gole spalancate dalle quali sorgono i vulcani: in dieci giorni egli consumò e divorò la vecchia terra, e dalla sua lunga coda, più abile di quella di un castoro, plasmò la terra nuova nelle acque del Diluvio; poi terminata la sua opera, il dragone, come il baco da seta che costruisce la sua prigione, si girò su se stesso e si riaddormentò, cullato giorno e notte da quattro geni, attendendo il risveglio dei secoli e l’aurora dei tempi nuovi. Tuttavia, una moltitudine di uomini e di donne, spaventati dalla fine del mondo, si erano rifugiati sulle montagne; furono mutati in pietre: questa metamorfosi durò dieci secoli, dopo di ché essi furono restituiti alla loro forma precedente dal canto divino di un uccello luminoso”[ix] e ripopolarono l’Europa. Notiamo, ancora, come il serpente fosse sacro alla celtica Dèa Brigit, la quale verso il primo febbraio (Imbolc), come ci ricorda Marjia Gimbutas, compare come un serpente della collina.[x] Il risveglio simbolico dei serpenti dall’ibernazione si verificava intorno al primo febbraio. In Scozia si credeva che un serpente emergesse dalle colline durante Imbolc, il “Giorno della Sposa”, ossia di Brighit. [xi] Inoltre la Dèa Madre, sempre secondo Marjia Gimbutas, assume l’aspetto zoomorfo di serpente o di uccello sin dal Neolitico. Il serpente è anche associato al Dio Cernunnos, che vediamo tenere nella mano sinistra un serpente con la testa d’ariete. “La caratteristica connessione del serpente con l’ariete, animale sacro alla Dèa Uccello, risulta da immagini di serpenti dotati di corna o con testa di ariete, e dall’intercambiabilità delle corna di ariete con le spire di serpente”.[xii] L’immagine della Dèa serpente è facilmente riconoscibile nell’arte celtica e i Druidi, in Galles, chiamavano se stessi Nadredd, ossia serpenti, in quanto legati alla sapienza ancestrale.“Dapprincipio – scrive in proposito Robert Graves – non c’erano dei maschili contemporanei alla Dèa che potessero sfidarne il prestigio e il potere. Essa però aveva un amante che era alternativamente il benefico Serpente della Saggezza e la benefica Stella della vita, suo figlio. Il Figlio si incarnava nei demoni maschili delle varie società totemiche da lei governate, che assistevano alle danze erotiche tenute in suo onore. Il Serpente, incarnato nei serpenti sacri che erano gli spiriti dei morti, distribuiva i venti”[xiii]. Il Figlio e il Serpente rappresentavano, rispettivamente, la parte chiara e la parte scura dell’anno, così come il celtico Mabon, Figlio della Luce, che a Beltane sposa la Figlia dei fiori (la Dèa Madre nella sua versione di fanciulla). Mabon morirà a Samain, per lasciare posto al cervo, il Kernunnos, il quale, avendo nella mano sinistra un serpente con la testa d’ariete, rappresenta la fase ctonia dell’anno, quando la natura si rifugia nelle profondità per poi risorgere, come Mabon, a primavera.
[i]Marija Gimbuta, Le dee viventi, Medusa.[ii]Tim Walleace Murphi, Il codice segreto dei Templari, Newton Compton [iii] Tim Walleace Murphi, Il codice segreto dei Templari, Newton Compton [iv] D.A. Morandini – Folklore in Val Camonica – Tip. Camuna – Breno - 1927[v] E’ interessante notare, a questo proposito, come la Dèa madre degli Sciti abbia coda di serpente. Vedi: Pietro Citati, La luce della notte, Mondadori[vi] Augustin Chaho, Histoire de Basques, Imprimerie e Lithographie de P. Lesper, Bayonne, 1847[vii] Vedi Louis Charpentier, Il mistero basco, Edizioni Età dell’Acquario[viii] Augustin Chaho, Histoire de Basques, Imprimerie e Lithographie de P. Lesper, Bayonne, 1847[ix] Augustin Chaho, Histoire de Basques, Imprimerie e Lithographie de P. Lesper, Bayonne, 1847[x] Marjia Gimbutas, Il linguaggio della Dèa, Venexia
[xi] Marjia Gimbutas, Il linguaggio della Dèa, Venexia
[xii] Marjia Gimbutas, Il linguaggio della Dèa, Venexia
[xiii] Robert Graves, La Dèa bianca, Adelphi